
Articolo di Ottorino Pagani:
“In ecologia la resilienza è definita come: “la velocità con cui una comunità (o un sistema ecologico) ritorna al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione che l’ha allontanata da quello stato; le alterazioni possono essere causate sia da eventi naturali, sia da attività antropiche. Solitamente, la resilienza è direttamente proporzionale alla variabilità delle condizioni ambientali e alla frequenza di eventi catastrofici a cui si sono adattati una specie o un insieme di specie”. Con il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) questa parola ha trovato enfasi nel linguaggio tecnico-istituzionale e indica un obbiettivo importante del Piano di sviluppo europeo.
Ma perché dovremmo allenarci alla resilienza contro i cambiamenti climatici in corso d’opera?
Questo orientamento risulta coerente con la strategia comportamentale prevalente in questi tempi, cioè prestare attenzione ai soggetti che vivono determinate esperienze piuttosto che agli oggetti che possono causarle: se sollevare pesi diventa troppo doloroso, si è di fronte a una scelta: o si diminuisce il carico o si presta meno attenzione al dolore. La strategia che predilige questa seconda scelta porta al proliferare di investimenti e di consulenti in psicoterapie che hanno il compito di intervenire alterando le sensazioni degli individui per gestire in meglio le proprie attività ed esperienze. In linea con questa strategia è, anche, la recente scelta del governo italiano “di raddoppiare lo stanziamento annuale dei fondi destinati al potenziamento deiservizi trattamentali e psicologici negli istituti di pena, attraverso il coinvolgimento di esperti specializzati e di professionisti esterni all’amministrazione”. Probabilmente, il successo di questa strategia fa leva sull’evidenza che il nostro cervello è più attratto dalle soluzioni additive piuttosto che da quelle sottrattive: troviamo molto più attraente comprare più cibi dietetici invece di mangiare meno, nonostante che la seconda sia la soluzione più efficace. Così, anche per il riscaldamento globale, ci piace pensare che facendo “di più” (più investimenti, più digitale, più energia, più competitività, etc) potremo risolvere il problema, e nel frattempo ci prepariamo a resistere al caldo, ai fenomeni estremi, all’innalzamento dei mari.
Ma l’alternativa di agire per cambiare il contesto, cioè l’oggetto piuttosto del soggetto, è proprio da escludere? Non è possibile agire per rallentare, circoscrivere e poi fermare ili cambiamento climatico?
Se la capienza delle carceri è di 47 mila posti a fronte di 61 mila detenuti presenti dovremmo prevedere riforme strutturali urgenti per far fronte alla densità e al potenziamento reale e concreto dell’assistenza sanitaria ai detenuti, diversamente il bollettino dei suicidi si allungherà.
Se dobbiamo abbattere le emissioni di CO2 il prima possibile dovremmo rivedere urgentemente tutti i sistemi energetici, produttivi, distributivi e dovremmo cambiare un sistema economico malato, basato sul falso presupposto che la Terra è un deposito inesauribile di risorse e una discarica di rifiuti senza limiti.
Resilienza non è quindi una parola nuova o neutra, e il ruolo / importanza che la “governance Europea” gli sta dando dovrebbe suggerirci qualche riflessione per evitare che attraverso l’indottrinamento dei media “siano le parole stesse a pensare per noi”.