Dal 1 di dicembre abbiamo tutti capito che è iniziata una nuova fase per i cittadini poveri. Infatti stampa e televisione hanno inscenato una massiccia campagna di informazione (in realtà di puro marketing) per comunicarci che, da quella data, i poveri potranno godere di un sussidio importante. Ma è davvero così? Purtroppo no.
C’è stata solo una imponente campagna di marketing per far credere che le cose sono cambiate ma la verità è ben più dolorosa. Mi occupo professionalmente di servizi sociali, da ormai più di 15 anni, e purtroppo devo constatare che anche questa volta il provvedimento del governo non si è discostato dall’idea di un intervento insufficiente, mal concepito, mal organizzato e alla fine estemporaneo. Non risolve davvero i problemi annosi che il paese ha davanti a sé.
Intendiamoci non si vuole dire che non si è fatto nulla perché “qualcosa è sempre meglio di niente”. Ma questo intervento, dopo la sperimentazione di un anno di SIA non va nella giusta direzione e ancora una volta rappresenta un fenomeno di quella “metastasi di welfare”, come qualcuno ha chiamato le politiche sociali di questi ultimi 10 anni. Interventi frammentari, non universali, che non affrontano strutturalmente alcun problema sociale ma tamponano e selezionano l’accesso allo stato sociale solo di poche persone.
E’ successo per il sostegno dei disabili a scuola, per la mediazione culturale, per il trasporto e l’accesso al lavoro dei disabili, per gli anziani malati cronici, per le malattie psichiatriche, per il dopo di noi, e ora per la povertà. Basta leggere gli interventi di Chiara Saraceno per capire come l’evoluzione dello stato sociale italiano sia sempre più precario e come esso stesso sia in pericolo, nonostante le chiacchiere. Per non parlare di come sono scritte e organizzate le leggi che riguardano il sistema sociale, quello sanitario, quello pensionistico e l’intero apparato pubblico. Il periodo delle riforme e dell’autonomia locale è lontano e del tutto dimenticato, in primis dal legislatore. Muti e silenti anche l’ANCI e i sindaci. Mi fermo qui e lascio parlare Marco Revelli. Dal Manifesto di oggi 5 dicembre con un articolo dal titolo”Miseria, la beffa del potere”.
“ Grottesca e crudele. La vicenda del Reddito di inclusione (Rei) sta raggiungendo vette di insipienza inimmaginabili anche per chi è da tempo abituato a commentare le imprese di una classe di governo difficile da qualificare. Che la marea dei poveri fosse in Italia in tumultuosa crescita era cosa conosciuta da chi si occupa professionalmente del fenomeno, anche se mascherata nel racconto pubblico da una buona dose di ottimismo a buon mercato.
I 4.742.000 «poveri assoluti» certificati dall’ Istat nel suo ultimo rapporto parlano di una vera e propria emergenza sociale. Ma oggi sappiamo che quella marea montante, sollecitata dalla promessa di un pur parzialissimo sollievo alla propria condizione costituito dalla annunziata e strombazzata possibilità di accesso a un frammento di reddito, si è messa in movimento. Ha invaso le sedi comunali, poi – non trovandovi risposte adeguate- è trabordata verso i Caf (Centri di assistenza fiscale).
Ne ha travolto le deboli strutture, è dilagata verso l’Inps, alla ricerca disperata di un ufficio, un funzionario, un responsabile che sapesse dar loro risposte che nessuno sapeva articolare per la semplice, atroce ragione che nessuno sapeva che fare, che cosa suggerire. Nessuno aveva indicazioni «dall’alto», strutture attive o attivabili, linee di comportamento definite…
Secondo un copione troppe volte ripetuto, la «politica» (i partiti di governo, i ministri e le ministre che ne elaborano i provvedimenti, gli uomini e le donne che siedono in parlamento e votano le leggi) ne aveva elaborato il testo curandone la funzione-annuncio ma si era del tutto disinteressata delle procedure e delle strutture necessarie per renderlo operante. E quando l’esercito dolente dei poveri tra i poveri si è presentato agli sportelli, cercando di indovinare quale potesse essere quello giusto, si è assistito all’ennesimo 8 settembre della nostra burocrazia.
I Comuni – i primi a esser presi d’assalto – hanno dovuto ammettere di «non essere attrezzati a dar risposte ai cittadini», in particolare di non avere «gli strumenti per strutturare il percorso di inserimento al Rei», e ciò nonostante che la legge istitutiva del Rei stanzi il 15% delle (già miserrime) risorse disponibili proprio per l’istituzione degli sportelli comunali. Ma, come dovrebbe essere noto ai decisori pubblici, buona parte dei Comuni italiani sono paralizzati sul versante degli organici dalle regole sul pareggio di bilancio, per cui anche se ricevessero quei fondi non li potrebbero spendere.
Così in molte realtà i questuanti sono stati reindirizzati ai Caf (come accade in rete quando un sito è «andato giù»), che però stentano già a star dietro alla domanda ordinaria, figurarsi a un’onda di piena, e poi hanno un contenzioso aperto con lo Stato per i fondi loro promessi per le dichiarazioni Isee (l’Indicatore della situazione economica equivalente, necessario anche per accedere al Rei). E considerano i compensi attualmente previsti dalla convenzione con l’ Inps drammaticamente insufficienti, tanto che sollecitano un’integrazione in Legge di Bilancio. Così quel passo a suo tempo definito «epocale», che avrebbe dovuto dare anche all’Italia un brandello di reddito di emergenza (come chiamarlo altrimenti), si è trasformato in un’altra atroce beffa ai danni dei poveri.
Beffa burocratica, questa volta. Inescusabile, perché se già appare intollerabile l’inefficienza amministrativa in generale, quando questa si rivela una forma di vessazione verso la parte più fragile del Paese la cosa assume tutti i caratteri del sadismo sociale, da autocrazia d’altri tempi.
Un racconto crudele – di ordinaria crudeltà burocratica – degno di Gogol che anticipò il diluvio che spazzò via la dinastia degli zar. Forse non vedremo nascere un’opposizione sociale forte almeno quanto è grande l’oltraggio che il privilegio compie ai danni degli ultimi, ma magari – chissà -, potrebbe comparire, tra le nebbie del tempo, un altro padre Gapon, il prete ortodosso che nel gennaio del 1905 organizzò la celebre marcia dei poveri passata alla storia come il punto culminante dell’anteprima della rivoluzione russa. Allora la marea dei poveri di Pietroburgo giunse fino alle porte dei palazzi del potere con le croci di Cristo e i cappelli in mano, chiedendo «giustizia e protezione» a nome di «un popolo intero lasciato all’arbitrio del governo dei funzionari, formato da dilapidatori e saccheggiatori”.