Un’impetuosa ondata populista sta sommergendo l’Europa. Vediamo forze politiche, portatrici di ideologie, esaltanti il sangue, il suolo, il popolo primigenio, sulle quali la storia sembrava avesse pronunciato una sentenza in giudicato, raggiungere consensi inusitati, come il Front National in Francia, la Lega Nord e Casa Pound in Italia, Alternative für Deutschland (AFD) in Germania, il Partito della libertà (FPÖ) in Austria, il Partito per la Libertà (PVV) in Olanda.
L’Austria pochi mesi fa ha visto la nascita del governo del giovane Kurz, con la partecipazione nell’esecutivo di tre esponenti dell’estrema destra razzista e xenofoba di Strache, a cui sono stati affidati dicasteri di peso, come quelli dell’interno, degli esteri e della difesa. Vi sono paesi, poi, che da tempo sono retti da governi fortemente autoritari e illiberali, come la Polonia e l’Ungheria. Quest’ultima, pochi giorni fa, ha visto la riconferma al governo, per la quarta volta consecutiva, con il 50% dei consensi, del nazionalista Victor Horban. Non molto meglio vanno le cose nella Repubblica Ceca e in quella Slovacca che insieme a Polonia e Ungheria costituiscono il c.d. gruppo di Visegràd; gruppo che è diventato il “cuore di tenebra” europeo
A fronte della rapida crescita di questi movimenti di destra, la sinistra, in tutte le sue componenti (marxiste, socialiste, ecologiste, liberali), di converso, versa in una situazione drammatica, tanto drammatica da apparire, secondo alcuni, irreversibile.
Come è potuto accadere tutto ciò, come è potuto accadere che la sinistra che si è posta, fin dalla sua nascita, il compito di trasformare il mondo, dando una speranza e una ragione di vita a milioni di persone, si sia ridotta ad una riserva indiana?
La verità è che da circa 30 anni la sinistra ha abbandonato i suoi valori, e ha svoltato verso il liberismo, facendo proprio il mantra thatcheriano “There Is no Alternative” (TINA), non vi è alternativa a queste politiche. “Sento dire che noi dobbiamo fare una pausa per discutere della globalizzazione. Potremmo allora chiederci anche se l’autunno deve o no succedere all’estate”, così si esprimeva Tony Blair nel 2005 davanti alla platea dei delegati del congresso laburista. Nel momento in cui la sinistra ha abbracciato il liberismo la sua politica economica è diventata non distinguibile dalla destra, da qui il tentativo di cercare di differenziarsi sul piano dei diritti civili, favorendo le “diversità” e il “multiculturalismo”, ed appoggiando le lotte delle donne e delle minoranze.
Si è avuto così quello che la politologa americana Nancy Fraser ha sintetizzato nell’ossimoro “neoliberismo progressista”. Con questa locuzione la Fraser vuole indicare “un’alleanza tra le correnti mainstream dei nuovi movimenti sociali (il femminismo, l’antirazzismo, il multiculturalismo e i diritti delle minoranze) e i settori “simbolici” di alto livello e basati sui servizi del mondo degli affari. In questa alleanza, le forze progressiste si uniscono concretamente alle forze del capitalismo cognitivo, soprattutto alla finanziarizzazzione. Pur inconsapevolmente, le prime prestano il proprio carisma alle seconde. Ideali come la diversità e l’autonomia, che di principio possono servire a diversi scopi, ora mascherano politiche che hanno devastato il settore manifatturiero e i mezzi di sussistenza della classe media “.
Il partito democratico statunitense di Bill Clinton, ma anche di Barak Obama, le socialdemocrazie europee, come i laburisti di Tony Blair e di Gordon Brown, i socialdemocratici di Gerd Schroder, i socialisti francesi di Hollande, il PASOK greco di Papandreu, e da ultimo il PD italiano, sono stati tutti i portatori di tale disegno, hanno attuato politiche che tenevano insieme il programma neoliberista, fatto di delocalizzazioni, privatizzazioni e ristrutturazioni, con il riconoscimento dei diritti (o libertà ) civili. Lo scopo ultimo di tali politiche è stato quello di frammentare e spezzare la resistenza dei ceti popolari al nuovo ordine economico.
Non è un caso che in questi ultimi anni abbiamo visto l’indebolimento dei sindacati, il calo dei salari e l’aumento della precarietà. La stessa Fraser ricorda che “negli anni in cui il settore manifatturiero colava a picco, gli Stati Uniti pullulavano di discorsi sulla “diversità”, sulla valorizzazione delle donne” e sulla battaglia contro la discriminazione”, e, non è, quindi, un caso, che il presidente del Consiglio, Gentiloni, abbia dichiarato, ad una manifestazione elettorale, tenutasi pochi giorni prima delle elezioni, “di essere fiero di aver fatto approvare le leggi sulle unioni civili e sul biotestamento”.
Il populismo di destra prospera, perché il mondo dei ceti popolari è stato distrutto dal capitalismo finanziario e messo ai margini dalle élite culturali progressiste, le quali, dalla seconda metà degli anni ottanta del secolo scorso, hanno concentrato le loro energie politiche e intellettuali sulle minoranze sessuali e culturali. La conseguenza è stata che i ceti medi inferiori e in particolare, come hanno evidenziato alcuni studi, gli uomini di mezza età con poca o scarsa qualificazione si sono sentiti di appartenere ad una minoranza nel loro stesso paese, a cui nessuno presta più ascolto e di cui nessuno si interessa, disprezzati e sfruttati. Se a questi aggiungiamo il fenomeno in forte espansione come quello dei Working poor, persone il cui reddito da lavoro non garantisce la sussistenza sopra la linea di povertà, e solo in Italia se ne contano tra i lavoratori dipendenti oltre 2 milioni, mentre in quello autonomo 760 mila, risulta, pertanto, naturale che questi gruppi abbiano pensato che la loro rigenerazione potesse avvenire, solo col dare fiducia a chi promette loro il ritorno dei privilegi razziali, religiosi ed etnici perduti, e facciano molta presa slogan populisti, come “America first”, o “prima gli italiani”.
Come se ne esce da quest’ impasse, da questa strada senza uscita? Certo occorrerebbe ricostruire la vecchia alleanza tra coloro che lottano per conquistare nuovi spazi di libertà (diritti civili) e coloro che mirano a migliorare le proprie condizioni di vita, facendo sì che risultino compatibili emancipazione e protezione sociale.
Secondo alcuni si tratterebbe di un impresa difficile, secondo altri addirittura impossibile.
Marc Lazar, docente alla LUISS di Roma, in un’intervista, apparsa sul “Fatto Quotidiano”, dopo aver osservato che la sinistra europea “ha perso le sue basi sociologiche, la forma partito è contestata da tutti, non fa più welfare, e per il momento non riesce a raccontare, ad avere una narrativa”, conclude, la sua sconsolata disamina, che “forse è davvero la crisi finale della sinistra”. La politologa svizzera Hausermann, a sua volta, in modo netto e tranciante dichiara “Non importa che cosa faccia la sinistra, tanto alla fine in un modo o nell’altro, perde comunque”. Si tratta di autori, è bene ricordarlo, che si dicono di sinistra.
Certo noi tutti viviamo in una condizione sconsolata, quanto non disperata, per le condizioni in cui versa la sinistra e, tuttavia, occorre compiere uno sforzo di freddezza e razionalità per cercare una via d’uscita. “Mi sono convinto che, anche quando tutto sembra perduto, bisogna mettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio”, questa frase di Antonio Gramsci, tratta dai Quaderni dal carcere, sintetizza assai bene quale deve essere il nostro atteggiamento di fronte all’anno zero della sinistra. Si proprio da “ground zero”
Lo scrittore austriaco Robert Misik, ricorda che “i movimenti progressisti del passato, a partire dai movimenti dei lavoratori del diciannovesimo secolo, fino al movimento dei diritti civili americano, non sono nati in condizioni di lotte vittoriose. E’ vero il contrario: la sinistra non è stata certo fondata perché una soluzione fosse facile, ma piuttosto per realizzare l’impossibile, cioè per migliorare il mondo e le condizioni di vita umane a dispetto di ogni contrarietà reale e apparentemente insuperabile”.